venerdì 24 febbraio 2017

La cultura del Narcisismo e il declino di una civiltà

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Christopher Lasch - La cultura del narcisismo

Christopher Lasch, sociologo e storico statunitense, prematuramente scomparso nel 1994, è uno dei dodici maestri irregolari proposti da Filippo La Porta.

La sua opera più importante è un saggio sociologico del 1979, che gli ha dato fama mondiale: La cultura del narcisismo. “In questo saggio - leggiamo nella quarta di copertina del tascabile Bompiani - Christopher Lasch offre una severa e corrosiva analisi dei modelli culturali dominanti nella società americana dagli anni Settanta in avanti, condizionata da un individualismo esasperato che si diffonde a livelli di massa e trasforma stili e comportamenti della vita quotidiana… La diffusa caduta della tensione politica, l’esasperata pratica dell’autocoscienza, il culto del corpo, l’ossessione della vecchiaia e della morte, la liberalizzazione sessuale sono le manifestazioni più importanti dell’edonismo statunitense”.

Ci sono intellettuali che, più di altri, hanno indagato e descritto i cambiamenti del costume in quell’epoca che va simbolicamente dal 1968 al 1989, che è all’origine del mondo contemporaneo. Le strutture sociali, culturali e politiche delle società occidentali si sono ridefinite in quel ventennio. Per capire noi stessi e la società in cui viviamo dobbiamo tornare lì e leggere autori come Lasch. Non è una scelta snobistica, è un’esigenza pratica se vogliamo possedere una coscienza critica del nostro presente. La Porta titola il capitoletto dedicato a Lasch “Non educare al successo”, poichè è attratto soprattutto dalla sua critica all’ossessione per l’autorealizzazione. “La caratteristica di Lasch - scrive La Porta - è di fare un discorso di sinistra, impegnato cioè a criticare l’ideologia dei consumi, della pubblicità, del successo ecc.., all’interno di un quadro concettuale antiprogressista. All’ottimismo progressista, basato sulla negazione dei limiti che la natura pone all’uomo, contrappone un’idea tragica della storia, che però recupera meraviglia e fiducia nella bontà della vita”.

Pensatore complesso, spesso scomodo, partito da posizioni neomarxiste (fu uno dei primi a organizzare negli USA un convegno su Gramsci), Lasch è approdato a una teoria apertamente ostile alla cultura liberal, alla sua fiducia nella crescita illimitata del capitalismo, ai suoi modelli consumistici di massa, alla sua demolizione della tradizione, della famiglia, delle comunità locali. Quella costruita dalla sinistra liberal americana (solo americana?) è una democrazia funzionale alla conquista del potere delle èlite, che gestiscono un intervento intromissivo dello Stato nella vita privata. Mentre “la democrazia funziona - secondo Lasch - soprattutto quando gli uomini e le donne agiscono per se stessi, con la collaborazione degli amici e dei vicini, invece di dipendere dallo Stato“. E’ pensiero molto vicino alla cultura federalista e, nello stesso tempo, molto esposto a derive populiste. Ma è un pensiero critico necessario, perche ci mette in guardia dalla perdità delle identità individuali e collettive, sotto la spinta omologante del facile appagamento consumistico e della deresponsabilizzazione offerti dalla società di massa, controllata e gestita da imponenti burocrazie statali.

La vittima principale delle politiche progressiste è la famiglia, svuotata di funzioni dall’ideologia dominante che tende sempre più a delegare a medici, psicologi, assistenti sociali l’educazione dei figli. Ma è in famiglia, innanzitutto, che si costruisce un argine alla banalizzazione dell’esistenza: il trionfo dei modelli televisivi, la cultura del facile e subito, la rimozione vittimistica degli insuccessi, il rifiuto per le onerose assunzioni di responsabilità. C’è molta old america nella sua etica della responsabilità, qualche rischio conservatore e un pò di velleità. Ma prendete Lasch come un anticorpo e non vi pentirete dei dubbi che vi avrà inoculato.

Maestri irregolari, di Filippo La Porta, critico letterario e saggista. 
Sottotitolo: Una lezione per il nostro presente.
Il testo contiene brevi profili di undici intellettuali del secolo scorso, preceduti da una introduzione che “lega” i temi affrontati negli undici profili, ricavandone, appunto, una lezione per il presente. Gli undici “maestri irregolari” (irregolari rispetto alle ideologie dominanti del Novecento) sono Nicola Chiaromonte, George Orwell, Simone Weil, Albert Camus, Ignazio Silone, Arthur Koestler, Carlo Levi, Hannah Arendt, Christopher Lasch, Pier Paolo Pasolini e Ivan Illich.


Tra la generazione Y (ormai quasi Z) e quella dei genitori è aperto oggi un conflitto molto aspro. Ce l’hanno con noi. Sostanzialmente perché stiamo lasciando loro meno benessere di quello che abbiamo trovato.
Insieme con il trasferimento del reddito, si è però interrotto il canale di trasmissione di molti altri beni dai padri ai figli. Di valori, per esempio; di conoscenza storica, di credi religiosi, di senso comune, perfino di lingua (si diffonde un italiano sempre più maccheronico). Si è aperto un vuoto di tradizione, insomma; parola la cui etimologia viene per l’appunto dal latino «tradere», trasmettere. I ragazzi vivono così in un mondo in cui le cose che contano sono diverse da quelle che contano per i genitori. Ma il guaio è che è il loro mondo a essere quello ufficiale e riconosciuto, vezzeggiato e corteggiato, perché sono loro i nuovi consumatori.
Al centro di questo mondo c’è una cultura del narcisismo, per usare l’espressione resa celebre da Christopher Lasch. Lo spirito del tempo ripete come un mantra slogan da tv del pomeriggio: «sii te stesso», «realizza tutti i tuoi sogni», «non farti condizionare da niente e nessuno», «puoi avere tutto, se solo lo vuoi». Più di un’educazione sentimentale è un’educazione al sentimentalismo. Al culto del sé, del successo facile, e del corpo come via al successo, sul modello dei calciatori e delle stelline. I genitori, anche i migliori, sono rimasti soli. È finito il tempo in cui «i metodi educativi in famiglia non venivano smentiti o condannati dal contesto», protesta Massimo Ammaniti ne Il mestiere più difficile del mondo, il libro scritto con Paolo Conti e pubblicato dal Corriere. Oggi invece la smentita è continua.
Nessun rifiuto, nessun limite, nessun «no» che venga detto in famiglia trova una sua legittimazione nel mondo di fuori. Il fallimento educativo che ne consegue è una delle cause, non una conseguenza, della crisi italiana. Ne è una prova il fatto che a parlare del disagio giovanile oggi siano chiamati solo gli psicologi e gli psicanalisti, e non gli educatori: come se il problema fosse nella psiche dell’individuo e non nella cultura della nostra società, come se la risposta andasse cercata in Freud e non in Maria Montessori o in don Bosco. È dunque perfino ovvio che l’epicentro di questo terremoto sia la scuola. E che il conflitto più aspro con i nostri figli avvenga sul loro rendimento scolastico. A parte una minoranza di dotati e di appassionati, per la maggioranza dei nostri figli lo studio è inevitabilmente sacrificio, disciplina, impegno, costanza. Tutte cose che non c’entrano niente con il narcisismo del tempo.
Chiunque abbia figli sa quanto sia dolorosa questa tensione. I ragazzi fanno cose inaudite pur di sottrarsi. L’aneddotica è infinita. C’è la giovane che riesce a ingannare i genitori per anni, fingendo di fare esami che non ha mai fatto ed esibendo libretti universitari contraffatti. C’è il ragazzone che scoppia a piangere come un bambino ogni volta che il padre accenna al tema dello studio. C’è quello che dà in escandescenze. Quello che mette il cartello «keep out» sulla porta della cameretta. Quello che non toglie le cuffie dell’iPod. Padri e madri non sanno che fare: fidarsi dei figli e del loro senso di responsabilità, rischiando di esserne traditi? O trasformarsi in occhiuti sorveglianti, rischiando di esserne odiati? Lo spaesamento è testimoniato dall’espressione che usiamo correntemente nelle nostre conversazioni: «Ciao, che fai?». «Sto facendo fare i compiti a mio figlio». «Far fare», un unicum della lingua italiana, una costruzione verbale che si applica solo alla lotta quotidiana con gli studi dei figli.
Bisognerebbe invece fare qualcosa. Ci vorrebbe una santa alleanza tra genitori, insegnanti, media, intellettuali, idoli rock, stelle dello sport, per riprendere come emergenza nazionale il tema dell’educazione, e sottoporre a una critica di massa la cultura del narcisismo. Ma i miei figli cantano, insieme con Fedez: «E ancora un’altra estate arriverà/ e compreremo un altro esame all’università/ e poi un tuffo nel mare / nazional popolare/ La voglia di cantare non ci passerà».

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